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Trump riduce l’immigrazione: salgono i salari degli operai americani
di Cesare Sacchetti
Gli immigrati abbassano il salario dei lavoratori americani.
Non è solo una vulgata o uno slogan elettorale in voga tra le forze populiste a favore di Trump. E’ quanto emerge dagli ultimi dati pubblicati negli Stati Uniti dal Bureau of Labour Statistics, l’ufficio per le statistiche del lavoro, secondo il quale i salari dei blue-collar, i cosiddetti lavoratori manuali o operai, stanno crescendo più rapidamente di quelli dei white-collar, i lavoratori attivi prevalentemente nel settore dell’informatica o della tecnologia.
Nel 2018, i salari negli USA sono cresciuti in media complessivamente del 3%, ma l’aumento più consistente si è registrato proprio nei lavori manuali, in particolare per gli addetti al settore delle vendite che hanno avuto un incremento salariale del 4,2%, una tendenza al rialzo confermata anche per i lavoratori attivi nel settore edile e dei trasporti dove la crescita è stata del 3,7%, mentre gli impieghi manageriali fanno registrare un aumento più lieve, pari al 2,5%.
Per i blue-collar, si tratta dell’aumento più alto degli ultimi 30 anni registrato negli USA. Ma cosa c’entra l’immigrazione con questa inversione di tendenza? La presidenza Trump ha radicalmente cambiato le regole alla base del mercato del lavoro statunitense degli ultimi 20-30 anni.
Dal 1990 in poi, le varie legislazioni congressuali e presidenziali che si sono succedute hanno favorito l’importazione di lavoratori stranieri in entrambi i settori.
In questo senso, la legislazione del passato ha consentito l’arrivo di circa 700mila stranieri all’anno con delle conseguenze negative soprattutto per i lavoratori americani locali.
Il rapporto inversamente proporzionale tra diminuzione dei salari e aumento dell’immigrazione è confermato dalle statistiche in questione.
La politica dei confini aperti ha permesso l’ingresso negli Stati Uniti di migliaia di lavoratori messicani usati spesso dalle grandi corporation come leva per abbassare il costo del lavoro, e disoccupare invece i blue-collar americani che percepiscono salari più alti.
Le politiche del lavoro di Trump si fondano invece sul principio del “Hire American”, ovvero dare priorità all’assunzione di lavoratori americani.
Questo nuovo corso ha portato ad una sensibile riduzione del numero degli ingressi di lavoratori stranieri regolari e irregolari che entrano nel mercato del lavoro americano.
La diminuzione degli immigrati privi di qualifiche specifiche è coincisa con l’aumento dei salari dei lavoratori americani, e non si tratta di un caso.
Riducendo il bacino di manodopera straniera a basso costo dalla quale le imprese attingevano abbondantemente negli anni precedenti, si è automaticamente favorito l’assunzione e il conseguente aumento salariale dei lavoratori del posto.
L’immigrato, sostanzialmente, si conferma come una leva al ribasso del salario.
La vera vulgata quindi in questo caso sarebbe quella della scuola neoliberista, secondo la quale gli immigrati sarebbero disposti a fare i lavori che gli italiani o gli americani non vogliono più fare.
Le statistiche confermano che non è vero.
In questo senso, non può esserci, come sostiene una parte dell’intellighenzia della sinistra radicale, alcuna battaglia comune tra i lavoratori occidentali e gli immigrati, nel tentativo di unire le forze per aumentare i salari di entrambi.
Le due categorie sono in conflitto, perchè i secondi accetteranno qualsiasi riduzione di salario pur di avere l’occupazione dei primi.
E’ un meccanismo che non avviene solamente nei lavori manuali, ma anche nei lavori intellettuali, come quelli dei colletti bianchi.
Fino ad ora, difatti il governo americano ha consentito l’arrivo di laureati principalmente da India, Cina e Filippine, prevalentemente tutti dal settore informatico.
Le cifre in questione parlano di 500mila lavoratori provenienti da questi Paesi, che sono disposti a lavorare ad orari molto più lunghi con retribuzioni inferiori ai loro omologhi americani, pur di avere la possibilità di acquisire il bonus della cittadinanza americana.
Il meccanismo del bonus prevede infatti che questo tipo di lavoratori immigrati possano diventare cittadini statunitensi dover aver accumulato un consistente numero di ore lavorative.
Questo crea una competizione al ribasso del salario anche nel settore dei lavori più qualificati, dal momento che l’immigrato che acquista la cittadinanza, può trasferirla automaticamente a tutti i suoi familiari, i quali potranno poi emigrare a loro volta negli Stati Uniti senza alcun tipo di visto.
Trump recentemente ha ribadito che vuole favorire una immigrazione di qualità in previsione dell’apertura di nuove compagnie, ed è prevedibile aspettarsi anche qui una contrazione dei lavoratori asiatici a favore dell’arrivo di immigrati europei più qualificati.
Il quadro che emerge dagli Stati Uniti è piuttosto simile a quanto già emerso nel rapporto del Migration Advisory Commitee, la commissione di consulenza sull’immigrazione britannica, che ha confermato come l’arrivo di lavoratori poco qualificati dall’Est Europa abbia difatti abbassato il salario dei lavoratori britannici.
Il conflitto quindi tra i lavoratori occidentali e quelli dei Paesi in via di sviluppo appare insanabile. Chi di fatto sostiene l’immigrazione di massa, si rivela essere il migliore alleato delle grandi multinazionali e il peggiore nemico dei lavoratori italiani ed europei.
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