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Cesare Sacchetti

La banda della Uno Bianca: l’ombra di Gladio e della NATO

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25/01/2025

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di Cesare Sacchetti

L’Emilia Romagna non è una di quelle terre che viene tradizionalmente ricordata per fatti di cronaca nera o particolare efferatezza, questo almeno dopo la seconda guerra mondiale, perché invece in quel periodo storico le terre romagnole si sono tinte di rosso per le stragi perseguiti dai partigiani comunisti.

A distanza di molti anni però da quei crimini, l’Emilia ancora una volta torna a tingersi del rosso non del partito comunista, ma del sangue dei suoi cittadini che hanno perso la vita in delle stragi dal “sapore” atlantico.

Bologna ne è un esempio e nonostante la incessante retorica delle varie istituzioni liberali sulla matrice “neofascista” della strage avvenuta il 2 agosto del 1980, gli esecutori e i reali mandanti di tale azioni non sono mai stati individuati e ci sono forti elementi che suggeriscono la solita regia transnazionale anche in questo tragico evento.

La strage di Bologna però non è l’unico evento che resta irrisolto.

La banda dei poliziotti della Uno Bianca

Ci sono altri fatti in terra di Romagna che ancora oggi presentano molti punti oscuri e questi sono certamente i crimini commessi dalla famigerata banda della Uno Bianca.

24 morti, 114 feriti per un totale complessivo di più di 100 azioni criminali che si sono svolte in un lungo arco temporale che inizia dal 1987 e termina nel 1994.

A vestire però i panni degli uomini che hanno terrorizzato l’Emilia e sparso questa lunga scia di sangue non sono banditi comuni della mafia o della malavita organizzata.

Sono uomini in divisa della Polizia di Stato. Vengono arrestati nel novembre del 1994 in circostanze ancora oggi non del tutto chiarite e che si vedranno più nel dettaglio a breve.

Gli uomini della Uno Bianca non possono nemmeno definirsi dei criminali infiltrati nelle forze dell’ordine perché il loro modus operandi non è affatto quello del criminale comune.

Il delinquente che veste la divisa cerca generalmente di gestire al meglio questa posizione di vantaggio per sé e per la sua organizzazione e non commette azioni che potrebbero facilmente e inutilmente attirare l’attenzione su di sé e i propri complici.

I banditi della Uno Bianca fanno l’esatto contrario. Uccidono indiscriminatamente e lo fanno senza remora alcuna.

Uccidono benzinai, passanti, commercianti, poliziotti e carabinieri senza che ce ne se sia alcuna ragione.

I componenti della banda, quali i famigerati fratelli Savi, Fabio, Roberto, e Alberto, gli ultimi due in polizia mentre il primo agente mancato per via della sua miopia, assieme ai loro complici Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli offriranno spiegazioni senza senso o quantomeno risibili per giustificare l’efferatezza delle loro azioni.

Roberto Savi, a sinistra, in compagnia di suo fratello Fabio

Uccidevano per l’adrenalina, disse Fabio Savi, ma gli inquirenti allora, e a quanto pare anche oggi, non si sono premurati più di tanto di andare a fondo delle vere motivazioni della banda né tantomeno hanno cercato di capire come sia stato possibile che questo gruppo abbia operato nella più completa impunità per tutto quel tempo.

Oggi, ad esempio, si leggono, di quando in quando, notizie di arresti di uomini delle forze dell’ordine perché coinvolti in vari traffici di droga oppure perché si davano all’estorsione o al taccheggio di altri rapinatori in cambio di avere “licenza” libera per continuare a fare borseggi e rapine varie.

A Milano qualche tempo fa avvenne un caso simile quando vennero arrestati due poliziotti in servizio presso la stazione centrale della città meneghina che estorcevano soldi, attraverso l’esazione di un pizzo, ai rom che commettevano i loro furti che pur di continuare le loro “attività” versavano le somme richieste agli agenti infedeli.

A Palermo invece nell’ottobre del 2023 a finire in manette furono altri poliziotti che passavano le soffiate ai vari spacciatori di droga che venivano avvertiti in anticipo di eventuali retate ai loro danni, e non di rado i carichi di stupefacenti sequestrati venivano “gentilmente” riconsegnati ai vari spacciatori sempre in cambio di cospicue percentuali e commissioni sul carico restituito.

Sono azioni che non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelle sistematiche ed efferate che sono state perseguiti in 7 lunghi anni dai fratelli Savi e dai loro altri tre complici, eppure queste sono state scoperte nel giro di breve tempo.

Non sono rimaste lì impunite nell’attesa che qualche misterioso indizio piovesse dall’alto nella, a quanto pare, generale sonnolenza degli uomini delle varie questure romagnole che in teoria avrebbero dovuto controllare l’operato dei loro sottoposti o perlomeno notare che c’era qualcosa di strano.

La strage del Pilastro: un agguato terroristico – militare

Ad esempio, l’azione che avvenne il 4 gennaio del 1991 nel quartiere del Pilastro, a Bologna, dà un’idea su come, ad essere generosi, ci fu quantomeno una incredibile “negligenza” su come vennero condotte le indagini.

Quella sera nel quartiere periferico bolognese vennero trucidati a colpi di arma da fuoco tre carabinieri, Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini presumibilmente da Fabio e Roberto Savi.

La scena della strage del Pilastro

Non c’è anche qui una ragione apparente per una strage del tutto gratuita e i due uomini quando rendono le loro deposizioni sulla dinamica che ha portato all’eccidio degli uomini dell’Arma si contraddicono più volte e sembrano chiaramente mentire.

Nella sua prima versione dei fatti del 28 novembre 1994, riportata da Antonella Beccaria nel suo libro “Uno Bianca e trame nere”, Roberto Savi dichiarò quanto segue sulle ragioni che portarono all’agguato.

“Il triplice omicidio è stato commesso da me e dai miei fratelli Fabio e Alberto. Quella notte eravamo di passaggio al Pilastro a bordo di una Fiat Uno bianca rubata. Io avevo con me la mia AR70;1 Fabio il fucile SIG222; Alberto aveva una pistola 357 Magnum. Stavamo andando a San Lazzaro a rubare macchine. Era una notte di nebbia. A un certo punto, in via Casini, all’altezza dei grattacieli, siamo stati sorpassati da una Fiat Uno dell’Arma. Pochi istanti dopo, avendo la sensazione che si fossero insospettiti e ci volessero fermare, ho aperto il finestrino ed ho esploso alcuni colpi con l’AR70, forse cinque o sei in direzione del lunotto posteriore della vettura dei carabinieri. Il mezzo ha accelerato e si è fermato un po’ più avanti. Siamo subito giunti a ridosso del mezzo con la nostra macchina e tutti e tre siamo scesi. Io sono stato subito colpito da un proiettile esploso dal milite che occupava il posto anteriore destro. Ho sentito un forte dolore e mi sono piegato in due. Forse sono riuscito a sparare un colpo. Nel frattempo Alberto e Fabio sparavano in direzione dei carabinieri […]. Per quanto riguarda la ferita, non mi ha curato nessuno. L’ho disinfettata con un comune prodotto e successivamente ho preso degli antidolorifici.”

 Non la pensa così però suo fratello Fabio che dirà questo su quanto accaduto quella notte.

“Ammetto anche l’omicidio dei tre carabinieri al Pilastro. Ci avevano dato l’alt e non ci eravamo fermati. A quel punto ci hanno inseguito. Dopo un po’ la situazione si è invertita e dopo che loro hanno iniziato a sparare abbiamo sparato noi […]. Come ho detto all’inizio, erano loro ad inseguire noi, poi siamo arrivati ad un incrocio, ci siamo girati e ce li siamo trovati su un fianco. A quel punto noi li abbiamo inseguiti perché altrimenti ci avrebbero di nuovo inseguito loro. Noi eravamo su un’auto rubata e quindi non potevamo farci controllare. È vero che quella sera mio fratello è stato ferito. Lo avevamo curato da soli […]. Effettivamente la sera del Pilastro eravamo io, Roberto e Alberto […]. Alla fine dell’inseguimento scendemmo dalla macchina per proteggerci con le armi in quanto i carabinieri ci stavano sparando addosso. Certamente io non andai a controllare se i carabinieri erano tutti morti. In macchina eravamo seduti nel seguente modo: Luca [è il soprannome con cui viene chiamato Alberto Savi, N.d.A.] guidava, io ero seduto dietro, Roberto era sul sedile del passeggero.”

Roberto afferma che la loro Uno bianca era stata sorpassata da un’auto dei Carabinieri, e loro, senza nemmeno aspettare di vedere cosa facessero gli uomini della Benemerita hanno iniziato a sparare contro di questi, in quella che non sembra affatto un’azione casuale come la vuole far passare l’agente che i suoi colleghi chiamavano il “monaco” per via del suo essere alquanto introverso e taciturno.

Fabio invece racconta un’altra storia e dichiara che l’auto dei carabinieri non li aveva sorpassati ma gli aveva dato l’alt e dopo il mancato rispetto dell’ordine di Mitilini e degli altri sarebbero stati inseguiti per poi, non è ben chiaro come, arrivare ad un completo rovesciamento di fronte nel quale i carabinieri da inseguitori si trasformano magicamente in inseguiti.

Soltanto leggendo le deposizioni dei due fratelli, non si può che arrivare ad una conclusione logica.

O uno dei due mente, oppure mentono entrambi e allora ci sarebbe da dubitare non solo sulla dinamica di questa strage e delle altre, ma anche sul fatto che i due fossero lì e che assieme a loro, in quella e in altre azioni, non ci fossero altri componenti della banda, magari anch’essi poliziotti, che non sono mai stati identificati.

I depistaggi dei servizi segreti: la Falange Armata

La nebbia però non era calata soltanto quella tragica sera del 4 gennaio del 1991, ma anche nelle settimane successive quando iniziano ad arrivare le rivendicazioni da parte di una fantomatica e sedicente sigla terroristica denominata “Falange Armata” che dai primi anni’90 in poi si intesterà una serie di atti terroristici, quali le stragi del 1993 di Capaci e di via d’Amelio, nelle quali persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, senza dimenticare la coda di attentati a patrimonio artistico dell’Italia eseguita nel 1993.

Il biennio del 1992-1993 è stato un periodo nel quale venne eseguita una vera e propria opera di destabilizzazione pianificata dell’Italia su impulso degli ambienti dello stato profondo americano che si era schierato apertamente con i giudici del pool di Mani Pulite ai quali era stata affidata una missione ben precisa; rimuovere l’intera vecchia classe dirigente della Prima Repubblica, divenuta ormai d’intralcio per i piani di Washington e Bruxelles, e lasciare al suo posto soltanto i “vincitori” della rivoluzione colorata di Tangentopoli, l’ex partito comunista, che nel frattempo aveva indossato i panni del PDS, più consoni alla nuova fase della sinistra progressista dopo il crollo del Muro di Berlino.

La Falange Armata aveva il preciso compito di depistare per gettare fumo negli occhi degli inquirenti, che lo ricevevano ben volentieri, e dare al tempo stesso in pasto alla stampa una falsa pista attraverso la quale ingannare l’opinione pubblica italiana in larga parte del tutto ignara dell’attacco internazionale di matrice angloamericana e sionista che si stava consumando contro l’Italia.

L’operazione di depistaggio della Falange viene fatta anche per numerosi agguati della Uno Bianca, a dimostrazione che dietro questa volontà di inquinare le indagini sulla scia di sangue sparsa in Emilia c’erano gli stessi ambienti che nel 1992 eseguirono il golpe di Mani Pulite e il saccheggio sul Britannia officiato da Mario Draghi assieme alle già citate stragi di quel biennio di caos pianificato.

L’ex ambasciatore Fulci aveva infatti chiamato direttamente in causa gli uomini dell’ex servizio segreto militare, il SISMI, i cui uomini erano stati accusati dal diplomatico di essere i telefonisti della Falange Armata che si intestavano le azioni della Uno Bianca e del 1992-1993.

Anche questa indagine però si perde nelle nebbie della procura di Roma che già nel 1992 aveva lasciato cadere nel vuoto la pista sulla quale stava indagando Giovanni Falcone prima di morire, e che conduceva dritta ai fondi neri del partito comunista italiano riciclati in un dedalo di cooperative rosse e attività criminali di vario tipo.

Le armi dei Savi mai controllate

Nemmeno per la storia delle armi utilizzate dai Savi però c’è molta chiarezza, a quanto pare, e anzi, ci sono ombre inquietanti che fanno pensare a qualcosa di più che ad una semplice negligenza o incompetenza come si accennava in precedenza.

Normalmente si potrebbe pensare che banditi di questo genere, seppur in divisa, si procurassero le loro armi sul mercato nero, e invece le compravano regolarmente in armeria, registrate a loro nome.

L’agguato del Pilastro, come si diceva in precedenza, è stato eseguito con un Beretta AR 70 e con un Sig Manurhin calibro 222.

Fabio Savi era in possesso proprio di un Sig Manurhin calibro 222 che aveva acquistato presso l’armeria Savini di Rimini il 18 gennaio del 1989.

La Criminalpol di Bologna lo sapeva già nel 1991 quando sul suo tavolo arrivò una informativa firmata dal vicequestore di Rimini, Oreste Capocasa.

Nulla però venne fatto nei confronti di Fabio Savi. Non una perquisizione, non un fermo o una perizia sull’arma per accertare se fosse stata quella a sparare quella notte.

La DIGOS di Bologna nel 1995 disse che l’informativa di Capocasa era “inedita” ma evidentemente non poteva esserlo se questa era stata consegnata alla Criminalpol 4 anni prima.

Qualcuno in questa storia non sta dicendo la verità, ma la magistratura anche qui non è sembrata troppo interessata a capire com’è stato possibile che un gruppo di banditi in divisa compisse le sue sanguinose scorribande in Emilia e che nessuno dei loro colleghi si rendesse conto di nulla.

Se si pensa però che il caso dell’arma di Fabio Savi è unico e che altre volte la magistratura e la polizia non siano incappate nei nomi dei Savi nel corso delle indagini sulla Uno Bianca, ci si sbaglia.

Ancora una volta il nome di uno dei due fratelli salta fuori, Roberto, e salta fuori sempre nel corso delle indagini sulla strage del Pilastro.

Roberto Savi era uno di quei 30 possessori di AR-70 in Emilia all’epoca dei fatti, avendone ben due.

Uno lo aveva acquistato nel gennaio del 1989 e l’altro lo aveva ordinato presso un’armeria di Bologna il 27 dicembre del 1990, alcuni giorni prima dell’agguato nel quartiere periferico bolognese.

Il “monaco” insiste con l’armeria per avere il secondo AR-70 che non aveva mai sparato e porta questo ai suoi colleghi della polizia bolognese che anche questa volta non si premura nemmeno di chiedere l’altro fucile a Savi per fare le dovute verifiche.

Ancora una volta i Savi vengono lasciati stare per ben due volte consecutive nel corso della stessa indagine.

Nessuno però pare aver chiesto conto alla questura di Bologna di questa incredibile sequela di “errori”.

Non risultano esserci state epurazioni o punizioni di nessun tipo, ma anzi alcuni degli uomini che erano in servizio in quegli anni presso la questura bolognese hanno continuato tranquillamente a fare carriera.

Non è stata nemmeno fatta chiarezza  su come sarebbero stati catturati i Savi.

I due poliziotti di Rimini, Pietro Costanza e Luciano Baglioni, che sarebbero riusciti a risalire a Fabio Savi lo avrebbero fatto seguendo l’auto di un suo vicino di casa, una Fiat Tipo, nonostante questa fosse stata persa dai due durante il pedinamento e nonostante questa a casa di Savi, a Torriana, non sembra ci abbia parcheggiato.

La targa sporca della Tipo che avrebbe poi presumibilmente attirato l’attenzione dei due poliziotti sembra che già lo fosse un anno prima del presunto pedinamento del novembre del 1994, come si può vedere in questo video nel quale si vede Fabio Savi nel dicembre del 1993 che cavalca la sua moto, una Suzuki, e passa vicino alla Fiat Tipo che anche lì ha la targa sporca.

La Tipo del vicino di casa di Savi è rimasta con la targa sporca per quasi un anno? Non è stata data una risposta, così come nessuno è andato ad approfondire quanto detto da Eva Mikula, la compagna di Fabio Savi, la quale disse che l’uomo le avrebbe confessato di essere parte dei servizi segreti e che quanto fatto con la Uno Bianca sarebbe stato soltanto la punta dell’iceberg.

Eva Mikula

La pista non viene seguita nemmeno qui perché probabilmente porta in delle zone che si preferisce lasciare coperte per timore che possano venire fuori indicibili verità.

Si è preferito credere a Fabio Savi che ha dato due versioni diverse sulla strage del Pilastro e che ha motivato quella interminabile sequela di crimini durata 7 anni come il risultato della ricerca di adrenalina facile di pistoleri esaltati.

La fotocopia belga della Uno Bianca: la banda del Brabante Vallone

La Uno Bianca però tutto appare tranne come una banda di improvvisati che insegue emozioni facili.

Il loro modus operandi era al confine tra esperti di tattiche di guerriglia militare e assalti terroristici. A mettere in rilievo l’analogia tra questa banda e un’altra, quella belga del Brabante Vallone, è stato, tra gli altri, lo storico Giuseppe De Lutiis.

Gli identik dei componenti della banda del Brabante rilasciata all’epoca dei fatti

Le modalità operative erano pressoché identiche. La banda del Brabante Vallone non cercava il bottino, ma lo scontro, la paura, e il sangue gratuito.

Attiva dal 1982 al 1985 in Belgio, responsabile di 28 morti, era composta da uomini che avevano una chiara formazione militare e che non sono mai stati individuati.

A dire esplicitamente che i componenti di questa banda erano uomini di Gladio, l’esercito clandestino della NATO, è stato Paul Latinus, un membro della cosiddetta “destra radicale” che affermò che la sua organizzazione era finanziata direttamente dal governo belga.

Il filo che unisce la banda del Brabante a quello della Uno Bianca sembra essere uno solo: quello della strategia della tensione ordita dagli apparati del Patto Atlantico che miravano ad una destabilizzazione programmata per spingere l’opinione pubblica a invocare la protezione di quelle istituzioni che in realtà eseguivano tali crimini per conto della NATO.

Sono passati molti anni, e negli Stati Uniti ora non c’è più un presidente che vuole mantenere in vita la NATO, ma uno invece interessato a separare Washington dal Patto Atlantico.

Trump ha deciso che saranno declassificati i documenti sugli omicidi dei fratelli Kennedy.

Forse i tempi sono davvero maturi anche per avere finalmente la verità su quella stagione di sangue che è iniziata dalla morente repubblica di Cassibile in poi.

I tempi forse sono maturi per dare verità alle famiglie vittime della Uno Bianca e della stagione stragista di tutto il dopoguerra italiano.

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15 Commenti

  1. Gabriele

    Ottimo articolo.
    Trump potrebbe attraverso un ordine esecutivo spegnere i Mass media ed imporre la verita’ con trasmissione a rete unificate H24 per più giorni attraverso una dichiarazione di stato di emergenza tipo EBS (Emergency broadcast system)? Puo’ farlo?

    Rispondi
    • La Cruna dell'Ago

      Grazie Gabriele, ha ordinato la declassificazione di molti documenti. La verità verrà gradualmente fuori.

      Rispondi
      • Gaetano

        Grazie Cesare , per l’ audace impegno e per l’indagine giornalistica sempre precisa ed esaustiva. Proprio in quegl’anni ho creduto di servire una Repubblica che si facesse paladina dell’ eticita ‘ e non quella corrotta e golpista della cosidetta ” seconda repubblica ” del Britannia e di Tangentopoli. Ancora custodisco gli alamari d’ argento per appartenenza alla stessa caserma del generale Dalla Chiesa e non posso negare d’intravedere la medesima matrice ( la longa manus – l’octopus – la mano nera – i lupi grigi – ecc…) autrice dei delitti che vanno dalle stragi di Capaci e via D’Amelio , del caso Orlandi, via Poma, mostro di Firenze sino ai drammi familiari del delitto Franzoni, del delitto di Perugia ( citta’ massonica per antonomasia )e del delitto Gambirasio ( la famigerata Procura di Bergamo ). Per parafrasare Hegel : tutto cio’ che e’ reale e’ razionale e tutto cio’ che e’ razionale e’ reale !
        A breve attendo un suo articolo su Danny Casolaro che a mio avviso e’ in odore di forte attualita’.
        Nel congedarmi le auguro il meglio.

        Rispondi
        • La Cruna dell'Ago

          La ringrazio, Gaetano. Il problema di questa scia di sangue inizia a Cassibile, con l’occupazione americana. Casolaro venne ucciso per le sue indagini sui Clinton. Mi scriva pure quando vuole, anche in privato.

          Rispondi
  2. Pi

    “Bologna ne è un esempio…”

    Anche il DC9 di Ustica partì da Bologna.

    PS: ottimo articolo come sempre!

    Rispondi
      • Zerodosato

        Ho sempre pensato che la strage della stazione abbia avuto lo scopo di rendere convincente l’ipotesi dell’atto terroristico quale causa della strage di Ustica.

        Rispondi
  3. Gabriele

    Trump declassifica la verità su Kennedy, torri gemelle eccetera…
    Ma se i Mass media rimangono li, chi sarà a divulgare a centinaia di milioni di persone il contenuto di ciò che e’ stato declassificato?
    Quali canali possono raggiungere milioni e milioni di persone così rapidamente allo stesso modo di come fanno i soliti Mass media?

    Rispondi
  4. Veronica

    Minuziosa disamina…..
    Crede che sarà declassificata tutta la verità sulla frode del 2020 con successivo attacco nei confronti degli artefici, visto che Trump si sta muovendo su Kennedy?

    Rispondi
      • Massimo

        Ciao Cesare.Quando Trump nella stanza ovale della Casa Bianca ha firmato i documenti sulla declassificazione dei casi di JFK, RFK e MLK ha preso la penna , firmato e con uno sguardo verso il suo interlocutore ha detto ” dia la penna a RFK JR” .Un inequivocabile segno che tutto sarà svelato, ma soprattutto un chiaro messaggio su John John.Cosa ne pensi?

        Rispondi
        • La Cruna dell'Ago

          Il simbolismo di quella scelta mi sembra chiaro, Massimo.

          Rispondi
    • Giovanni Sposito

      Come al solito Sacchetti centra il tutto come un “cecchino”, lo dico dal basso della mia conoscenza! Articolo che va dritto al sodo! Comunque siamo sempre lì, il trattato di Parigi del 1947 è da dove tutto parte, trattato di cui ancora si conosce poco ma il solo art.16 fa capire il tutto visto anche i personaggi che ci troviamo negli alti scranni, altissimi! Figli di sponsorizzati da organizzazioni criminali, questa è l’Italia! I vertici dei nostri servizi (parlo dei vertici, c’è chi ha perso la vita probabilmente perché cercò di spifferare o far conoscere la vera realtà, tipo Ferraro o Mandolini) sono diretta emanazione della Nato o comunque dell’intelligence anglo americana!! In questo caso, stranamente, pescarono in polizia, di solito pescavano nell’esercito soprattutto fra i carabinieri! La strategia credo nacque alla metà degli anni ’80! I criminali della politica yankee e British proiettano il potere, già anni prima pianificano! Rientrano in quella categoria di omicidi destabilizzatori come gli omicidi rituali/mediatici (a proposito, il Sig.Lorenzi di Cogne…lavorava lì a Bologna al COE a quei tempi, credo ci siano collegamenti), purtroppo è la storia di questo paese degli ultimi 80 anni! Complimenti sempre a Sacchetti, AD MAIORA SEMPER!

      Rispondi
      • La Cruna dell'Ago

        Ti ringrazio, Giovanni. Osservazioni importanti anche sul trattato di Parigi.

        Rispondi
  5. gabrielevangelista62

    Non dimentichiamoci dì Unabomber, altro caso irrisolto (secondo me è un carabiniere)! In quel periodo nefasto, vivevo a Cesena e ne ho un bel ricordo, si fa per dire! Mia madre conosceva la moglie di Graziano Mirri, il cassiere Merendi era della banca dove avevamo un conto corrente, l’ufficio postale era sito vicino a casa nostra e ricordo il botto prodotto dall’autobomba fatta esplodere poco dopo, per terra si trovavano a volte bossoli di proiettile, ecc.

    Rispondi

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