I documenti declassificati dello Spygate: l’Italia al centro del complotto contro Trump

12/04/2025

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di Cesare Sacchetti

Erano attesi da diverso tempo, e alla fine sono arrivati.

Sono i documenti declassificati dello scandalo dello Spygate, ovvero una fitta trama di spionaggio internazionale tessuta contro il nemico comune dell’anglosfera: Donald Trump.

Sono i tempi della prima campagna elettorale del candidato repubblicano che aveva già all’inizio del 2016 sbaragliato i suoi concorrenti di partito alle primarie e che si presentava a tutti gli effetti come l’uomo più temibile per Hillary Clinton.

A Washington, tutti volevano che vincesse l’ex segretario di Stato americano e consorte dell’ex presidente Bill Clinton, già intimo sodale del pedofilo del Mossad, Jeffrey Epstein, e frequentatore del gruppo Bilderberg che aveva deciso la sua vittoria alla Casa Bianca almeno un anno prima della sua candidatura, nel 1991.

Hillary Clinton era il cavallo sul quale i vari esponenti della governance globale e del blocco Euro-Atlantico puntavano per poter continuare ad esercitare il controllo dell’impero americano, vero e proprio perno indispensabile per l’intera anglosfera e l’Unione europea.

Nel partito democratico americano si inizia a diffondere sempre di più il timore che Donald Trump possa farcela e sconfiggere Hillary Clinton, e allora i dem decidono che c’è bisogno di qualche polpetta avvelenata per fermare la corsa del facoltoso imprenditore di New York.

C’è bisogno di uno scandalo fabbricato a tavolino che possa screditare agli occhi della opinione pubblica Trump, fino a raffigurarlo, falsamente, come un traditore.

C’è bisogno appunto dello Spygate o del Russiagate, quella grottesca montatura che ha cercato sin dal principio di rappresentare Donald Trump come un agente sotto copertura di Vladimir Putin.

La Clinton e la nascita del dossier patacca di Steele

Hillary decide così di rivolgersi ad una società privata di intelligence di Washington, la Fusion GPS, che già in passato aveva svolto delle consulenze sia per il partito democratico sia per la famigerata lobby dell’aborto, Planned Parenthood, verso la quale affluiscono i finanziamenti delle più grosse corporation dove si incontrano i soliti fondi di investimento BlackRock e Vanguard, anch’essi nelle mani delle “grandi” famiglie del capitale americano internazionale.

La Clinton si rivolge ad “amici” perché vuole essere sicura che venga fuori esattamente il risultato da lei desiderato, ovvero quello di screditare Trump attraverso una falsa accusa di essere al soldo di un Paese straniero.

Fusion GPS decide a sua volta di appaltare ad un esterno questa “opera” di macchina del fango, e allora pensa “bene” di contattare una ex barba finta dei servizi segreti britannici dell’MI6, quale Christopher Steele, all’epoca attivo presso la società di intelligence Orbit Business Intelligence.

Christopher Steele

Steele durante i suoi anni al servizio del MI6 dirigeva la sezione che si occupava della Russia, un dipartimento molto particolare specializzato nella creazione dei famigerati false flag, ovvero attentati di vario tipo eseguiti dall’intelligence inglese per far ricadere la colpa invece sugli odiati russi.

L’ex agente inglese è una delle figure chiave dell’intero scandalo dello Spygate. E’ lui infatti a fabbricare il famigerato dossier contro Donald Trump, nel quale si afferma che l’allora candidato dei repubblicani avrebbe anni prima avuto rapporti con prostitute russe in un hotel di Mosca nella stessa camera d’albergo dove avrebbe soggiornato Barack Obama.

Non contento delle sue peripezie edonistiche, Trump avrebbe persino ordinato alle donne di urinare sul letto dove avrebbe dormito qualche tempo prima Barack Obama a dimostrazione di tutto il suo esaltato disprezzo verso il presidente democratico e della presunta fedeltà di Donald Trump a Vladimir Putin.

A dare questa “chicca” a Steele era stato un “analista” russo di nome Igor Danchenko, e anche chi non era un addetto ai lavori poteva facilmente capire che questo dossier fabbricato dall’ex agente del MI6 era chiaramente solo e soltanto una patacca.

Igor Danchenko

Gli uomini dell’FBI invece non solo non lo scartano immediatamente come avrebbero dovuto fare, ma ascoltano attentamente Steele tanto da riceverlo in diverse occasioni ufficiali nelle quali prendono nota delle sue “rivelazioni”.

Gli incontri di Steele con l’FBI

Tra i numerosi incontri avuti dall”analista” britannico, ce n’è uno in particolare riportato con dovizia di particolari nei file declassificati della inchiesta del Russiagate ed è quello avvenuto il 18 settembre del 2017 a Londra.

Hillary Clinton è stata già sconfitta,  Donald Trump è già alla Casa Bianca, ma la montatura del Russiagate è ancora vigorosa sui media mainstream americani che cercano di preparare il terreno ad un falso casus belli per chiedere la messa in stato di accusa contro il presidente degli Stati Uniti, e, al tempo stesso,  di ostacolare i rapporti tra Stati Uniti e Russia, da sempre lo scenario più temuto da tutti i vari esponenti dei circoli mondialisti internazionali.

Steele si vede in quell’occasione nel prestigioso albergo di Grosvenor, nel cuore di Londra, con due uomini dell’FBI, dei quali si conosce soltanto l’identità di Brian Buten, perché il nome dell’altro agente federale è stato coperto in nero nel documento reso pubblico.

Steele si presenta con un altro socio d’affari della sua Orbit, Christopher Burrows, e i due sembrano subito molto preoccupati per come si è conclusa la loro relazione con l’agenzia investigativa più importante degli Stati Uniti.

Burrows in particolare prova a scusarsi con i due rappresentanti dell’FBI per aver passato alla stampa durante la campagna elettorale per le presidenziali il dossier patacca di Steele, ma il braccio destro di Steele non gira intorno alla questione.

Gli ex membri dell’intelligence britannica avevano due rapporti di lavoro.

Il primo era quello con il loro cliente, Hillary Clinton, che li aveva espressamente ingaggiati per gettare fango su Donald Trump.

Il secondo era quello con l’FBI che aveva aperto l’inchiesta nota come “Crossfire Hurricane” per indagare sulle fantomatiche collusione di Trump con i russi, e già questo fa capire quanto sia gravemente compromessa l’FBI in tale faccenda.

Steele aveva un conflitto di interessi grosso come una casa, ma l’agenzia allora diretta da James Comey, nominato da Barack Obama, nemmeno si pose il problema.

Non solo decise di dare credito alle fonti farlocche russe di Steele, ma gli diede persino i soldi dei contribuenti americani per comprare queste “pregiate informazioni” che l’uomo al servizio della Clinton passava all’agenzia investigativa americana.

Che Steele fosse legato da un rapporto d’affari con il partito democratico americano era chiaro, ma che fosse al tempo stesso spinto ad agire per motivi politici contro Donald Trump era altrettanto palese tanto che l’ex agente del MI6 nel corso dell’incontro con Buten e il suo collega dichiara che il loro “nemico comune” era Donald Trump che attraverso la sua presidenza avrebbe potuto mettere a rischio la storica partnership tra il Regno Unito e gli Stati Uniti, e mettere così fine al potere dell’anglosfera che è stato il caposaldo di tutto l”ordine” partorito dalla seconda guerra mondiale.

Il versante italiano dello Spygate

Se c’era una chiara intenzione da parte dell’apparato britannico e dei suoi servizi di screditare in ogni modo Trump e di rovesciare la sua presidenza, la stessa intenzione sembrava esserci chiaramente a Roma, dove all’epoca dei fatti c’erano i controversi governi di Matteo Renzi e Matteo Gentiloni.

Roma appare un altro elemento chiave per dipanare la matassa di questa trama eversiva, perché Christopher Steele era a strettissimo contatto con gli uomini dell’FBI in servizio presso l’ambasciata americana di via Veneto.

Ogni singolo depistaggio dell’uomo del MI6 veniva sempre indirizzato a Roma, il quartier generale del complotto contro Trump, e questo spiega perché nella documentazione sullo Spygate si trovino moltissime schede compilate da uno degli attaché diplomatici del bureau in Italia, Michael J. Gaeta, che riferiva su tutte le “informazioni” che Steele gli passava.

Il rapporto tra Steele e l’FBI era in realtà già iniziato nel 2013, ma dalla metà del 2016 in poi tutte le relazioni si incentrano esclusivamente sulla presunta corruttela della politica russa, assieme ai fantomatici rapporti che Trump avrebbe avuto con il Cremlino.

Steele passa a Gaeta anche l’informazione che l’ex avvocato di Trump, Michael Cohen, finito poi dietro le sbarre, sarebbe il ponte di collegamento tra il presidente americano e il Cremlino.

A pagina 54 della documentazione declassificata, si afferma persino che il padre della moglie russa di Cohen, Yefin Shusterman, sarebbe un altro dei punti di contatto tra Trump e i russi, ma a parte le parentele della consorte dell’ex avvocato di Trump, non viene offerto nulla per sostenere la presunta “complicità” tra Trump e i russi.

Il rapporto dell’uomo del FBI a Roma sulle “fonti” di Steele

A pagina 56, le affermazioni si fanno ancora, se possibile, più inverosimili quando Steele riferisce che Cohen avrebbe avuto a Praga un incontro nell’agosto del 2016, 3 mesi prima delle presidenziali, con ufficiali del Cremlino, ma l’avvocato caduto in disgrazia non si trovava nella Repubblica Ceca, ma negli Stati Uniti, a Los Angeles.

Christopher Steele continuava a passare all’FBI una serie di patacche una dopo l’altra, ma da approfondire è il ruolo giocato dall’Italia, scelta come una delle centrali per eseguire il complotto contro Trump.

Si è visto infatti come Steele avesse come riferimento sempre l’ambasciata americana a Via Veneto, ma prima ancora dell’ex agente del MI6, c’era stata una collaborazione accertata tra la polizia postale italiana, rappresentata dalla dirigente Nunzia Ciardi, e Kieran Ramsey, un altro rappresentante dell’FBI a Roma, che aveva scritto una lettera alla Ciardi stessa nell’aprile del 2016 per ringraziarla della cooperazione fornita dalla Postale per aiutare gli americani a localizzare i server utilizzati dall’ingegnere Giulio Occhionero.

La lettera di Kieran Ramsey a Nunzia Ciardi

Occhionero, all’epoca, almeno per l’opinione pubblica, era un perfetto sconosciuto e diventerà famoso, suo malgrado, quando la procura di Roma emetterà ad ottobre del 2016 un mandato di arresto nei suoi confronti con l’accusa di spionaggio ai danni di diverse personalità di spicco delle istituzioni italiane.

L’FBI si stava però già interessando a lui ad aprile per una faccenda totalmente diversa, e che probabilmente è la chiave per comprendere perché Occhionero è finito nella bufera giudiziaria.

L’ingegnere sostiene infatti di essersi trovato al centro di una macchinazione ordita proprio dalla Polizia postale italiana e della sua divisione informatica, la CNAIPC, che avrebbe volontariamente hackerato i server della sua società negli Stati Uniti.

Secondo Occhionero, le autorità italiane avrebbero fatto tale operazione per piantare sui suoi server le famose email di Hillary Clinton, e accusare così Trump, ancora una volta, di “collusione” con i russi, dati gli stretti rapporti dell’ingegnere con il partito repubblicano americano.

Si è così agito evidentemente su due fronti.

Steele che ufficiosamente per conto dei servizi britannici fabbricava le sue false informazioni ai danni di Trump, e in Italia i servizi di intelligence italiani che si mettevano a disposizione dell’amministrazione Obama per attuare la stessa operazione di diffamazione ai danni del presidente Trump attraverso un altro versante.

In altre parole, lo Spygate è la storia di una stretta liason eversiva tra i servizi inglesi e italiani che su diretto impulso dell’Obama e dell’FBI avrebbero appunto lavorato fianco a fianco per screditare Trump e accusarlo di tradimento nei confronti degli Stati Uniti.

Papadopoulos e le accuse contro Renzi

Un altro dei personaggi coinvolti in questa rete internazionale eversiva, l’ex collaboratore della campagna di Trump, George Papadopoulos, è stato ancora più esplicito al riguardo.

Ad aiutare Barack Obama nel suo piano per sbarrare la strada della Casa Bianca a Trump, sarebbe stato l’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, già molto vicino agli ambienti del partito democratico americano ai tempi della sua improvvisa comparsa sulla scena politica nazionale che risale al suo periodo da sindaco di Firenze, nel 2009.

I rapporti tra Renzi e lo stato profondo americano in quegli anni appaiono già molto stretti tanto che si ventilava la possibilità di un incontro tra lui e Bill Clinton nel 2012, anche se poi l’ufficio stampa di Renzi negò che i due si fossero visti.

Nel PD in quegli anni infuriava la guerra aperta per la leadership del partito e gli ambienti angloamericani che sostengono Renzi avrebbero gradito molto un cambio della guardia, necessario non tanto in termini di fedeltà a Washington dei dirigenti piddini come D’Alema e Bersani, ma più che altro perché serviva l’immagine di un giovane esordiente e non troppo “compromesso” con il passato per proseguire sull’agenda dell’austerità voluta da Bruxelles e sulla politica delle migrazioni illegali incontrollate che Renzi ha permesso in cambio di una misera elemosina sul deficit.

Renzi ha fame di potere ed è appoggiato talmente tanto dall’anglosfera e da Israele tramite il suo uomo di collegamento con lo stato ebraico, Marco Carrai, ex console onorario di Israele, che riesce a salire a palazzo Chigi nel 2014 senza nemmeno aver vinto alcuna elezione.

Ad essere spodestato fu Enrico Letta, uomo anch’egli del Bilderberg, ma il rottamatore della Leopolda allora aveva, come detto, l’appoggio unanime di tutte le alte sfere.

Nel 2016 però la sua stella sembra in declino. Ci sono divisioni all’interno dell’apparato della sinistra progressista italiana che lo ha voluto lì, e il suo referendum costituzionale non è gradito a vari personaggi di riferimento dell’establishment italiano, su tutti l’ingegner De Benedetti che lo voleva già fuori nel 2016.

Il presidente del Consiglio così si guarda intorno in cerca di aiuto, e si dirige ancora una volta a Washington, proprio quando Barack Obama aveva ordinato all’FBI di avviare l’inchiesta “Crossfire Hurricane” contro Trump.

A fornire il pretesto agli agenti federali per aprire il fascicolo contro Trump era stato soltanto pochi mesi prima proprio Papadopoulos che avrebbe incautamente rivelato ad un diplomatico australiano vicino ai Clinton, Alexander Downer, che l’enigmatico professore maltese della Link Campus di Roma, Joseph Mifsud, era in grado di consegnargli le ormai leggendarie email di Hillary Clinton.

Mifsud ovviamente non aveva nulla in mano. Aveva soltanto gettato un’appetitosa esca all’ingenuo Papadopoulos fingendosi come un amico della campagna Trump, quando in realtà era vicino, come Downer, ai Clinton e agli ambienti dei servizi italiani e anglo-americani che volevano a tutti i costi incastrare Trump.

La macchina della sovversione era in quell’estate già in moto, e Renzi proprio nel mezzo della sua campagna per il referendum costituzionale decide di andare ad ottobre alla Casa Bianca, dove viene ricevuto da Obama.

L’accoglienza di Obama a Matteo Renzi

Lì, secondo Papadopoulos, Renzi avrebbe dato rassicurazioni ad Obama sulla sua disponibilità a coinvolgere i servizi segreti italiani nel piano contro Donald Trump.

Nonostante gli sforzi massicci dell’FBI e dei servizi italiani e inglesi, la bolla del Russiagate si sgonfia definitivamente nel 2018, e a distanza di 7 anni, vengono pubblicati altri documenti che confermano come questi apparati abbiano fabbricato una campagna di bugie contro il presidente degli Stati Uniti.

Soltanto un anno dopo, nell’agosto del 2019, giunge a Roma il procuratore speciale nominato da Trump, John Durham, per fare luce sul caso e sul coinvolgimento dei governi Renzi e Gentiloni, anche se Conte, allora presidente del Consiglio, negherà il tutto per non attirarsi addosso le accuse dell’ex rottamatore, che puntualmente gli sono arrivate ugualmente.

Se da un lato però Conte fingeva di voler aiutare Trump nella sua inchiesta, dall’altro, secondo quanto riportato dal giornalista Paul Sperry, si premurava di passare una falsa accusa di reati finanziari contro il presidente americano.

Il tweet di Paul Sperry

Conte alla fine, al netto di qualche timida giravolta, si sarebbe attenuto alla consegna trasmessa a tutti gli uomini della politica italiana.

Il nemico da abbattere ad ogni costo era Donald Trump.

Era ed è lui l’uomo che ha reciso il cordone ombelicale che legava la politica italiana a Washington, e questo spiega perché in ogni trama contro il presidente, si incontrino puntualmente i disgraziati e indegni politici della Seconda Repubblica, disposti a tutto pur di salvare il proprio orticello.

Trump però appare avere la memoria di un elefante. Non dimentica nulla.

La dimostrazione è data dal fatto che sta ordinando di far uscire altri documenti declassificati sul tentativo di colpo di Stato ai suoi danni.

Non si invidiano di certo le varie comparse della politica italiana che si sono impegnate in questa guerra contro Trump.

Il presidente degli Stati Uniti appare determinato come non mai, e non sembra intenzionato a fare prigionieri.

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